I tacchi dell'amministratrice sullo scalone del palazzo comunale. In questo tardo pomeriggio di metà marzo non c'è il solito via vai di messi e funzionari. Scendiamo le rampe in silenzio, a testa bassa, io con il sorriso accennato, lei con il volto tirato:
“Come fai a essere così entusiasta? Non hai un po' paura?” - mi chiede sul terzultimo scalino.
“No. Non ora, almeno. Ho solo l'entusiasmo di una nuova sfida e mille idee in testa che alzano la mano per parlare prima delle altre. È come sapere di aspettare un figlio, credo. Se cominciassi a pensare anzitempo alle notti in bianco e a tutte le preoccupazioni, ti tireresti indietro sin da subito!”
Ogni grande progetto, in fondo, un po' figlio lo è. AR[t]CEVIA è semplicemente il figlio, anzi, la figlia di tanti padri e tante madri. Una figlia in piena adolescenza, se vogliamo, perché in questa edizione qualche cambiamento si comincia a vedere. E se il 2012 per i Maya è la fine, per noi, questo stesso anno, rappresenta un nuovo inizio. Nuovo l'entusiasmo del team organizzativo, nuovi i ruoli e nuovi molti degli artisti partecipanti. Solo l'intento rimane lo stesso, perché le cose buone non si cambiano, vanno semplicemente ripulite e rinfrescate.
La quinta edizione inizia così, dunque, con nuove idee e proposte, a partire dalle tematiche delle opere provenienti da ogni luogo. Durante la fase di selezione degli artisti, mi sono ritrovata più volte a rispondere alla domanda “C'è un tema o un argomento per la collettiva?”. La risposta “No, non c'è” è mutata in “Praticamente no, ma teoricamente la sta assumendo” mano, a mano che raccoglievo adesioni. Sono i giovani e giovanissimi artisti soprattutto, a mostrare nuove “tendenze” - per definirle in modo spicciolo – e concetti che riassumono figure riconoscibili. Pochi i “mentalismi” macchinosi e cervellotici, molti i sentimentalismi che prendono in prestito dalla terra le forme, per proiettarsi in dimensioni immaginifiche ed eteree: rivisitazioni di soggetti sacri e religiosi, angeli, mondi irreali, mitizzazioni e senso di solitudine. Una solitudine piatta e universale che ha perso l'egocentrismo accusatorio dell'artista che si idolatra da sé. L'arte continua a denunciare da una parte e ad offrire vie di fuga dall'altra, ma lo fa con un “richiamo all'ordine” delle forme e con il pragmatismo dei materiali. È ormai chiaro che l'arte vive nel suo tempo, ma sempre con qualche passo di anticipo. E se è il mondo ad esser fermo a un indecifrabile astrattismo mutante, al pari delle nuvole sospese fra vento e cielo, l'artista restituisce quel concretismo di cui le nuove generazioni necessitano fortemente. Ogni opera è una zattera fragile ed errante in mezzo all'oceano: il solo vogare non basta. Occorre sperare che quella striscia cupa d'orizzonte sia davvero terra ferma: “Rema e credici. Prosegui e immagina che...” L'arte è salvifica come una fiaba... e nelle fiabe, a volte, credere fa bene.